Lucio una vita sul carrello | R’acconti di R’esistenze

 

Lucio una vita sul carrello è il racconto di apertura di "R'acconti di R'esistenze" (pagg. 3-9; editato dicembre 2018)_

Note_minime:
Il titolo è volutamente senza interpunzioni;
Il nome del personaggio, poi chiaramente svelato nel corso del racconto, è un diretto riferimento a Luis Sepúlveda e, in origine, doveva comparire come Lucho e per paranomasia eteronimica è diventato Lucio_

Che la terra ti sia lieve [venerdì 17 Aprile 2020]_
In ricordo e come stimolo a chiunque continui a proprio modo ciò che è l'unica lotta possibile, l'unico ideale per abbattere il potere e le sue dissennate disseminazioni: la Lotta per la Libertà!_ SaludYAnarquía

 

Lucio una vita sul carrello

– Oh ziooo! – è il saluto di Lucio ogni volta che
incontra un essere animato, sorridendo a mezza bocca
e alzando la mano con le dita in segno di rispetto.
L’altra mano sempre sul suo petto. Scarno come i
lineamenti e come i pochissimi muscoli che lo
separano dai vestiti di molte taglie superiori alla sua.
Lucio abita un punto imprecisato della città. È un
nomade della strada. Lo vedi pilotare un carrello della
spesa con dignità, fierezza e attenzione. Segue il senso
di marcia delle automobili e, prima di svoltare da un
marciapiede all’altro, si gira e indica con gli occhi e col
braccio la direzione che sta per prendere.
Dicono che durante l’inverno passi le notti in un
androne di un palazzo. Ho sentito dire che partecipa
pure alle spese di pulizia del condominio. Infatti,
l’unica volta che l’ho visto arrabbiato mi ha raccontato
che una signora era entrata nel supermercato e con un
fare da aristocratica e schiavista gli ha intimato di
pulire il marmo all’ingresso.

Era davvero incazzato Lucio. E mi ha chiesto una
sigaretta.
Lucio accompagna le signore avanti negli anni nel
tragitto che separa il supermercato e l’auto. Oppure, si
spinge fino a casa loro. Puoi sentire le rotelle del
carrello in giro per il quartiere. Quanti chilometri al
giorno fa Lucio. Eppure, ha sempre un sorriso per
tutti. Incluso il gatto che, verso sera, si aggomitola sul
cofano o sul tettuccio di una macchina e si gode lo
spettacolo dell’andirivieni del consumo.
Il gatto è grande e ha strie bianche e fulve. Uno dei
più sornioni che abbia mai visto: non reagisce a niente.
L’unico movimento che gli ho visto fare è stata la
reazione al saluto di Lucio.
Il gatto abita di fronte al supermercato. Pare sia molto
abitudinario. E, di certo, deve godere di uno stile di
vita molto apprezzabile, visto che non ha mai ceduto
alla tentazione di inoltrarsi verso la piazza poco
distante e partecipare ai banchetti della gattara della
via.
La gattara è una donna esplosiva. Chissà, magari
uno si aspetta una certa sintonia tra chi si occupa di
gatti – o felini in genere – e gli animali stessi; forse ci
si aspetta di vedere una donna che procede con passo
felpato, molto curata e a tratti civettuola.
O, probabilmente, nell’immaginario comune la gattara
è una persona che si lecca le mani e poi se le passa sul

viso per ripulirsi dallo smog o dai pensieri. O per
scacciare le inquietudini che assalgono ogni persona in
questo millennio, dimentiche degli orrori delle guerre
contemporanee o di quelle passate.
No, questa gattara è una donna formosa che saluta
tutti con una grande risata. Profonda e stridula allo
stesso tempo. Un suono prolungato che, a suo modo,
può ammaliare. Gli occhi le scintillano sempre, anche
quando è stracarica di buste e contenitori per i suoi
amici gatti. La vedi sempre discutere con qualcuno.
Una volta mi sono attardato nei miei passi e ho
cercato di carpire qualche parola di questo dialogo. Ne
sono rimasto esterrefatto: teneva un mini-simposio
con altre tre persone, una donna e due uomini
abbastanza giovani, sul piano regolatore urbano. Sì,
stava cercando di manifestare il proprio disappunto a
quelle persone, che poi ho riconosciuto essere dei
rappresentanti politici locali, sulle nuove varianti al
traffico che avrebbero provocato un vero
stravolgimento nella comunità felina e, di
conseguenza, nella sua organizzazione dei pasti e
dell’accudimento di quegli esseri liberi, sebbene
dimenticati.
I gatti liberi si riunivano nella piazza in discesa. E
spartivano il loro territorio con i piccioni. I gatti
confinati sul lato sud e i piccioni nel centro-nord.
Almeno per chi veniva da quella strada.

Un’altra volta, avevo preso più confidenza col
saluto e abbiamo scambiato due parole al volo, mentre
ciarlava amabilmente con una signora col cane al
guinzaglio. E, nonostante il precedente di qualche
tempo prima, mi sorprese: stavano chiacchierando di
letteratura. Non che sia poi così tanto strano sentire
qualcuno parlare di letteratura. Ma oggi sono più le
persone che camminano chine sui cellulari che quelle
che interagiscono. Di letteratura, poi.
E la sorpresa maggiore è stata quando ho capito il
tema: letteratura latino-americana. Mi sono quasi
commosso. E ho preferito andare via perché questo
senso di leggerezza e di condivisione non svanisse
ascoltando i dettagli del discorso. Mi sono privato
volontariamente dei loro pensieri, del loro sentire per
il timore di incappare in una sbavatura: era tutto così
perfettamente disegnato quella sera d’estate
afosissima, sul bordo di un marciapiede mentre il sole
iniziava il tramonto. Eravamo ovattati dal giallo che
tendeva al rosso; l’afa impediva pensieri nitidi; i vestiti
erano incollati addosso; il cane della signora aveva
appena pisciato sulla ruota di un’auto in sosta e
annusava le buste della gattara; il guinzaglio molle,
quasi inesistente, la signora che si sventolava con la
parte inferiore del vestito lungo e largo; la città era
stanca. E la gattara parlava di letteratura latinoamericana.

La signora col cane la incontravo molto più spesso.
Era come se ci fossimo dati un involontario
appuntamento preciso: la incrociavo esattamente
quando il suo cane usciva dal portone di casa e
disegnava una sinusoide di urina sul muro bucciardato.
Se si prova a passare di giorno, si può notare quel
disegno. Praticamente, a forza di rinnovarlo, è
diventato indelebile. Una traccia. Una memoria visiva,
oltre che olfattiva. E mi ha sempre stupito la
precisione nel rimarcare gli stessi punti. Come se tra
l’uscita della mattina e quella preserale, non aspettasse
altro che di svoltare a destra del portone, alzare la
zampa posteriore e saltellare per qualche metro
svuotandosi la vescica. Un vero maniaco della
precisione. Inevitabile la firma alla fine della strada.
Sempre sul muro. E stavolta col culo.
In quel punto, a essere sinceri, non ho mai
incontrato Lucio. Eppure per andare dal supermercato
alla piazza, l’unica via meno trafficata è proprio quella,
visto che la parallela è un lungo corso con marciapiedi
scalcagnati tanto che, quando ci cammini dopo giorni
che è piovuto, alcune mattonelle in cemento sgusciano
via e t’impantani tutto.
Un giorno gliel’ho chiesto che strada faceva per
arrivare alla piazza.
– Ciao ziooo!
– Ciao Lucio! Pace e rispetto fratello! – gli faccio.
– Pace e rispetto a te, ziooo! – mi risponde.
8
– Senti, una curiosità: ma che strada fai per andare
alla piazza?
Silenzio. Mi guarda sorridendo e accendendosi una
sigaretta tirata fuori da un pacchetto morbido come le
sue labbra mentre la accende. Svela pochi denti. Mi
guarda. Inspira. Espira.
– Zioooo vieni che ti offro un caffè! – mi dice con
slancio e dandomi una pacca sul braccio.
Lo guardo un po’ inebetito e replico – Al massimo te
lo offro io.
Lucio senza scomporsi, diventa molto, molto serio.
Praticamente, diciamo che forse l’ho visto serio solo
in un’altra occasione. – Zio, – mi fa mentre si batte sul
petto – se ti ho invitato è perché ho piacere di offrirti
un caffè.
A essere sinceri, non ha mai voluto che gli donassi
niente. In denaro, intendo. Allora mi sono sempre
limitato a prendergli un pacchetto di sigarette. E
l’unica cosa che mi abbia chiesto è un accendino.
Mi sentivo a mio agio con lui. E, credo, anche lui con
me. Siamo entrati in uno dei tantissimi bar che
costeggiano il corso parallelo alla via col supermercato.
Mentre girava lo zucchero, ha iniziato a raccontarmi la
sua storia. Mi ha detto il suo nome vero, la sua età, e
le sue origini. Mustafa ha 60 anni e viene dalla Tunisia.
E parla accentuando reminiscenze di francese miste a
un italiano semplice e corretto, anticipando le mie
domande già pronte negli occhi.

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