Dall’intervista precedentemente pubblicata sulla coniugazione del futuro, attraverso il passato remoto fondativo e un presente contingente, a questa molto ben fatta da Enric Llopis. Si parla di Scrivere, Pensare, Sentire e Tradurre la Realtà Sociale. Si parla di Letteratura, di Traduzione, di Ribellione, di Progettualità, di Passati scomodi e oscuri, Presenti malati, confusi e plurali – ma non globalisti – e di Finzioni Postmoderne. Si parla di Eros e Bellezza, di Quotidiani e Quotidianità.
Parla Manuel Talens:
Intervista al romanziere, traduttore e articolista Manuel Talens:
“Nessuno può sfuggire alle proprie origini di classe quando è il momento di parlare o di scrivere”
Tradotto da Francesco Giannatiempo
Manuel Talens (Granada 1948) è medico, romanziere, traduttore e articolista per la carta stampata e sulle piattaforme digitali di lingua spagnola. Per undici anni è stato opinionista su El País. Nel 2005, dopo essersi occupato per cinque anni del coordinamento dei traduttori di Rebelión, è passato a far parte di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguistica – gruppo plurinazionale e multilingue di cui è membro fondatore assieme ad altri traduttori europei e latinoamericani di una dozzina di lingue e culture. Finora, ha pubblicato tre romanzi – La parábola de Carmen la Reina (1992) (La parabola di Carmen la Regina), Hijas de Eva (1997) (Figlie di Eva) e La cinta de Moebius (2007) (Il Nastro di Moebius) – oltre a tre libri di racconti -, Venganzas (1995) (Vendette), Rueda del tiempo (2001, Premio Andalucía de la Crítica 2002) (Ruota del Tempo) e La sonrisa de Saskia y otras historias mínimas (2003) (Il sorriso di Saskia e altre storie brevi). Nel 2008 è uscito il suo libro di saggi Cuba en el Corazón (Cuba nel Cuore).
In qualità di traduttore professionista, ha tradotto in castigliano più di settanta opere di narrativa, semiotica, linguistica, psichiatria, teatro, saggistica e cinema di autori tanto diversi come Groupe µ, Georges Simenon, Edith Wharton, Groucho Marx, Paul Virilio, Blaise Cendrars, Derek Walcott, James Petras, Donna J. Haraway, Natan Zach, Fred Goldstein o Guy Deutscher.
Oggi, si dedica esclusivamente alla traduzione professionistica, sebbene sia stato uno dei membri fondatori di Tlaxcala –la rete internazionale di traduttori per la diversità linguistica – con cui, per giunta, ha collaborato per diversi anni. Quali differenze esistono tra i due lavori? Come ha sviluppato la militanza politica nel lavoro di traduzione?
Sono stato pure coordinatore dei traduttori di Rebelión per cinque o sei anni, prima di iniziare il progetto di Tlaxcala alla fine del 2005. Se ora, da un paio di anni, mi dedico esclusivamente alla traduzione professionistica, è perché questo è il lavoro con cui mi guadagno da vivere, e non posso abbandonarlo. Continuo a far parte di Tlaxcala, sebbene sia in una specie di anno sabbatico prolungato, dato che le circostanze hanno fatto in modo che attualmente debba occuparmi di una persona molto vicina alla mia famiglia e che reca evidenti segni di demenza senile; perciò il tempo libero che mi rimane è molto scarso.
Rispetto alle differenze che esistono tra la traduzione professionistica e Tlaxcala, posso dire che sono come il giorno e la notte. La traduzione professionistica – che nel mio caso riguarda due punti di vista: letterario e scientifico – non dipende da me, bensì da chi mi ingaggia per farla. Ciò comporta il fatto che non sempre mi arrivino testi di mio gradimento o persino divertenti, sebbene li traduca con il massimo della serietà, essendo un mio preciso obbligo. Lo prendo come se fossi un funzionario che ogni giorno si reca in ufficio.
Tlaxcala, così come Rebelión, è un gruppo di attivisti in cui tutti lavorano gratuitamente, scrivendo e traducendo testi politici di sinistra per diffondere tutto ciò che i mezzi di informazione convenzionali non citano mai. La differenza tra Tlaxcala e Rebelión è che quest’ultimo è un sito monolingue spagnolo ed è indirizzato unicamente alla comunità ispanica; mentre Tlaxcala è plurinazionale e multilingue. Senz’altro, in entrambi i gruppi siamo noi membri a scegliere cosa tradurre: nessuno ci impone una linea politica dall’esterno.
I ferri del mio mestiere di traduttore sono il francese, l’inglese e, in misura minore e molto sporadicamente, il portoghese e il catalano. Fino alla creazione di Tlaxcala, la lingua di destinazione di ogni mia traduzione era sempre stata lo spagnolo, la mia lingua madre. In Tlaxcala è nata la possibilità di invertire la strada e, da allora, mi sono messo a tradurre anche verso il francese e l’inglese, lingue che ho imparato e che gestisco meglio. Tlaxcala è uno straordinario luogo di apprendimento.
Da ultimo, la militanza politica come traduttore è venuta fuori naturalmente nel decennio degli anni novanta, per puro svago quando internet era ancora abbastanza limitato, attraverso le mie collaborazioni spontanee con alcuni gruppi. Solitamente inviavo traduzioni ad Attac, a Znet e a Rebelión, man mano stimolato nel vederle pubblicate. Finché, un giorno quelli del comitato della redazione di Rebelión mi hanno chiesto di occuparmii dei traduttori. E ho accettato.
Prendiamo a esempio la serie di “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust: cosa si perde il lettore che non conosce il francese e legge le traduzioni in castigliano?
Il giudizio che suscita la letteratura tradotta dipende dallo stato d’animo di ognuno; un po’ come alla stregua di chi vede i bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti: la traduzione per alcuni è un male necessario, mentre per altri – tra cui mi includo – è un’attività che ci permette di aprirci al mondo. L’ideale sarebbe che ognuno di noi potesse leggere qualsiasi cosa in tutte le lingue, al fine di poter godere delle sfumature originali senza la necessità di quest’artificio basato sul fatto che Don Chisciotte dialoghi con Sancho in lingua farsi o in giapponese: ma, siccome è impossibile, ecco perché esiste la traduzione.
Il problema è che non è facile tradurre, perché le lingue hanno mille sfumature e non sempre si riesce a trovare la parola che si avvicina di più per – citando Eco -«dire quasi la stessa cosa » nella lingua di destinazione. Se a questo si aggiunge che l’ambiente della traduzione, per ragioni di carattere economico o di prestigio in altri ambiti della scrittura, normalmente accetta tra le sua fila persone poco preparate unitamente a grandi professionisti, comprendo dove vuoi arrivare chiedendomi cosa perda dell’opera di Proust il lettore che ne fruisca della traduzione in castigliano.
Prendiamo una frase del noto episodio della Maddalena, in cui la voce narrativa racconta che sua madre, «voyant que j’avais froid, me proposa de me faire prendre, contre mon habitude, un peu de thé. Je refusai d’abord et, je ne sais pourquoi, me ravisai». A casa, ho la traduzione di Pedro Salinas; il poeta l’ha spuntata così: «viendo que yo tenía frío, me propuso que tomara, en contra de mi costumbre, una taza de té. Primero dije que no, pero luego, sin saber por qué, volví de mi acuerdo» [vedendo che avevo freddo, mi propose di prendere, contrariamente alle mie abitudini, una tazza di tè. All’inizio dissi di no; ma dopo, senza sapere perché, mi trovai d’accordo]. Ho letto molte volte questo passaggio e rimango sempre preso da questo incredibilmente inopportuno volví de mi acuerdo che, certamente, non trasferisce al lettore ispanofono la stessa sensazione di ciò che riceve il lettore francofono leggendo me ravisai. Di fatto, più di qualcuno si sarà chiesto che cazzo significa volví de mi acuerdo. A Salinas sarebbe bastato qualcosa di molto più semplice come, per esempio, cambié de opinión [cambiai idea]; ma, è chiaro che non fosse una soluzione all’altezza di un autore tanto contorto, complesso e difficile come il francese. Per fortuna, traduzioni successive dell’opera di Proust hanno fatto giustizia.
Ha collaborato diversi anni con El País (edizione della Comunità Valenziana), fino a quando non l’hanno espulso. Come mai è successo e come vede l’evoluzione di quest’organo di informazione fino a oggi?
(Risata) Detto così, qualcuno potrebbe pensare che quanto mi è successo richiami i film western, quando buttano qualcuno fuori a calci dal saloon e lo piantano in asso nel fango della strada, insieme ai cavalli. Le cose non succedono più così. Oggi, per fare a meno di un collaboratore, basta una telefonata o un’e-mail o, in alcuni casi, semplicemente il silenzio (come è successo a El País con l’editore e critico letterario Ignacio Echevarría).
Manuel Talens (Foto: Asun Harguindey)
Nel mio caso, è successo per telefono: Pep Torrent mi ha chiamato e mi ha detto che «a partire da adesso, non ti pubblichiamo più niente». E così, in modo poco glorioso, si sono conclusi i miei undici anni a El País. Me lo aspettavo dal giorno in cui decisi di esporre le mie convinzioni politiche. Non gli pareva vero che le suonassi, citandole per nome, a persone come Zaplana, Rafael Blasco, Rita Barberá o chiunque degli altri furfanti del Partido Popular valenziano; ma non apprezzavano il fatto di avere al proprio giornale un marxista a cui ogni tanto gli si scioglieva la lingua contraddicendo i dogmi del Grupo PRISA. Suppongo che Pep, che ritengo una brava persona, era stufo di dovermi censurare gli articoli, e così ha deciso di dare un taglio netto o ha ricevuto ordini di farlo. La verità è che entrambi ci siamo tolti un peso: lavorare sotto tutela in casa dell’avversario, o che questo lo faccia a casa tua, risulta sia scomodo che illogico.
Immagino che Manuel Vázquez Montalbán o Eduardo Haro Tecglen in qualche momento debbano aver provato la mia stessa sensazione di estraniamento che io ho sentito alla fine di quel periodo. Sono certo che, grazie all’enorme prestigio che avevano, il Grupo PRISA li ha mantenuti come opinionisti fino alla loro morte; ma oggi, a seguito della deriva neoliberista subita da El País, è semplicemente impossibile incontrare tra le sue pagine qualcuno che difenda i valori della sinistra al di là di questo brodo diluito preparato dai socialdemocratici (Fidel Castro, con molta grazia, li ha definiti socialvigliacchi), i cui unici ingredienti positivi sono le leggi correttive delle disuguaglianze nei diritti civili – matrimonio omosessuale, pieno diritto della donna all’aborto o ley de dependencia [Legge di Dipendenza volta a garantire sostegno alle persone non autosufficienti, come p.e. disabili, o concedendo una pensione minima; NdT]–, ma sempre dentro una pentola da venditore ambulante.
Come vede a distanza di tempo la realtà dei mezzi di informazione convenzionali? Ha collaborato diversi anni con Rebelión: vede un’ «alternativa» nei media che fanno critica?
I mezzi di informazione convenzionali di questo paese continuano a essere sempre ciò che sono stati, ovvero strumenti destinati a perpetuare lo status quo. Le differenze che si possono trovare tra ABC o La Razón e tra El País o El Mundo sono l’espressione di posizioni economiche opposte all’interno dello stesso sistema di mercato che ci dirige. È possibile esprimere qualsiasi opinione in queste pagine, purché si rimanga all’interno dei limiti di tale sistema; ma, si viene censurati con mano pesante quando si cerca di sovvertire l’ordine stabilito o , per dirla alla maniera di Marx, se ai filosofi – invece di interpretare il mondo – gli salta in mente di trasformarlo.
Quanto agli organi di critica come Rebelión, Tlaxcala, Cubadebate, Counterpunch o tanti altri, soffrono dello stesso problema, per ora irrisolvibile: predicano per quei convertiti di sinistra di qualsiasi società quali sono gli attivisti, e questo messaggio rimbalza come su uno specchio, non attraversandolo, e i lettori si sentono confortati nelle proprie certezze e buonanotte ai suonatori. L’intoppo sta nel fatto che questa grande sacca di cittadini spoliticizzati o «progressisti» di buon cuore non vanno oltre la socialdemocrazia collaborazionista, né tantomeno hanno sentito parlare di Rebelión o di Cubadebate, però senz’altro leggono El País o La Vanguardia e guardano assiduamente i notiziari delle reti televisive private. In queste condizioni, è molto difficile che le cose possano cambiare.
Ultimamente, ho assistito con piacere alla nascita di infoLibre in Spagna, un organo digitale di giornalisti professionisti di sinistra (con qualche socialdemocratico infiltrato, sebbene in minoranza). infoLibre è associato a un portale digitale francese con caratteristiche molti simili: Mediapart. Mi piace questo concetto del giornalismo, perché assume come necessaria la professionalità di coloro che lo praticano e la loro retribuzione con un salario dignitoso, evitando la partecipazione degli appassionati con buona volontà ma poca credibilità e funzionando senza azionisti ansiosi di ricevere i dividendi , ovvero il principale problema dei mezzi di informazione convenzionali. Ciò che ignoro è il tipo di percorso di questo genere di giornalismo sul lungo termine in un sistema in cui i grandi gruppi mediatici controllano l’opinione delle persone.
Comprende la letteratura senza impegno politico?
Ovvio che capisco la letteratura senza un impegno politico esplicito. La storia è piena di grandi scrittori che l’hanno praticata: per esempio, Borges o Proust. Il che non vuol dire che nelle loro opere non si possano seguire le tracce dell’origine sociale da cui provenivano, con i propri tic, le preoccupazioni e i codici ideologici di classe.
Con l’impegno politico, bisogna stare molto attenti, poiché la linea che separa l’esposizione di un problema sociale e il pamphlet di carattere sociale è molto sottile e facile da oltrepassare. Dal punto di vista letterario, bisogna condurre impercettibilmente il lettore affinché sia lui (o lei) a trarre le proprie conclusioni ideologiche, e non l’autore a imporle dicendo loro “questo va bene e quest’altro no”. In entrambi i casi lo strumento che trasmette il messaggio è il linguaggio; e ciò che differenzia un artista da uno scrittore dilettante di pamphlet è la maestria al momento di usarlo.
Gramsci, che ha riflettuto molto sul linguaggio, arrivò alla conclusione che il linguaggio non è un prodotto dell’espressione individuale, bensì sociale, di un gruppo, di una tribù. Se si applica questo principio ai due autori appena citati – Borges e Proust – appare chiaro che l’erudizione, la meticolosa precisione verbale e la squisitezza grammaticale di questi due autori diametralmente opposti, cui risulta impossibile scovare il minimo errore linguistico, ha a che vedere con il fatto che entrambi sono nati e cresciuti in famiglie dell’alta borghesia di Buenos Aires e di Parigi. Siccome – sempre secondo Gramsci – il linguaggio delle diverse classi sociali è soggetto, parallelamente alle stesse, a relazioni gerarchiche, di potere, non credo che risulti avventato desumere che parte del prestigio universale di cui godono Proust e Borges sia basato esso stesso – aldilà delle loro innegabili qualità letterarie – sul potere politico che la classe sociale a cui appartenevano ancora detiene in occidente. I loro libri non erano dei pamphlet, ma opere d’arte: non riflettono un impegno politico esplicito, ma certamente isolano con successo il lettore nel territorio delle preoccupazioni quotidiane dell’alta borghesia, chiaramente aliene quelle che allora si chiamava proletariato – una classe sociale storicamente nullatenente i cui appartenenti non potevano permettersi di perdere tempo meditando sui giardini dei viottoli che si biforcano né tantomeno osservandosi l’ombelico con l’occhio della memoria, dato che avevano sufficienti problemi a guadagnarsi il pane quotidiano.
Nessuno può sfuggire alle proprie origini quando è il momento di parlare o di scrivere, perché il linguaggio non è un veicolo neutro, asettico, come non è lo stesso essere figlio di un telegrafista di paese – come García Márquez – o nascere in una famiglia di illustre lignaggio patrio – come Borges – o avere un padre medico, accademico e di fama internazionale e una madre lettrice assidua di Racine e di Madame de Sévigné, come Proust. Ciò che sto dicendo, non vuol essere un giudizio di valore –visto che García Márquez non ha nulla da invidiare a Borges e né Zola mi pare peggio di Proust – bensì è la constatazione empirica di come il linguaggio di qualsiasi autore, appena lo si approfondisce, sia come una fotografia concettuale dello strato socio-economico da cui proviene.
Giudicherebbe scrittori come Vargas Llosa, brillanti nella forma, sebbene ideologicamente conservatori?
Vargas Llosa mi sembra uno scrittore novecentesco di primissimo livello. Conservo un ricordo eccellente di Conversación en La Catedral, letta quando avevo venti anni. L’ultimo libro che ho letto – La fiesta del chivo – mi è piaciuto molto. D’altro canto, le posizioni ideologiche che difende nei suoi editoriali non mi interessano in assoluto, sebbene gli riconosca il merito di esprimerle con convinzione. A Vargas accade ciò che succede agli attivisti dei portali di informazione digitali: questi predicano per i convertiti di sinistra e lui per quelli di destra. Anche il suo messaggio rimbalza come su uno specchio.
Ha scritto romanzi, libri di racconti, saggi ed editoriali. Cosa cercava in tutto questo?
La tua domanda è molto pertinente, visto che mette il dito nella piaga del perché dell’arte come attività: a che serve dipingere, scolpire o, come nel mio caso, scrivere? Per quanto mi riguarda, non mi sono mai considerato uno scrittore professionista. Scrivo opere narrative o commento l’attualità poiché la scrittura è il mezzo migliore che ho per decifrare me stesso e decifrare criticamente la realtà che mi circonda. Non ho il dono dell’oratoria. Esistono persone capaci di improvvisare risposte sicure in un attimo dinnanzi a qualunque difficoltà durante una conversazione. Mi pare una qualità ammirevole, perché queste persone sono capaci di zittire chiunque addirittura senza avere ragione, ma io non posso: le risposte mi vengono due ore dopo e, quindi, non c’è modo di discutere con un minimo di garanzia. Invece, mi trovo bene con la scrittura, anche se a volte mi è servita per mettermi nei guai.
Dieci anni fa, ebbi una polémica durata un mese su El País con Rafael Blasco, il politico del PP valenziano adesso sotto processo per corruzione. Lo attaccai prima in un articolo sull’uso populista che faceva del Plan Hidrológico Nacional (Piano Idrologico Nazionale); lui mi rispose con un altro e io contrattaccai; tornò a rispondermi e gli lanciai un ultimo dardo che parse lasciarlo senza argomenti, quindi tutto finì tutto. Col senno di poi, non è che mi senta orgoglioso di quella scaramuccia, soprattutto perché, alla fine, adesso ho appreso che le lotte sociali non si vincono con le parole, bensì per strada, come hanno dimostrato i madrileni nel caso della privatizzazione della sanità; però, certamente mi rallegro di aver messo in evidenza la fragilità retorica di un personaggio tanto pericoloso quale era Blasco in quel momento.
Analizzando qualcuno dei suoi romanzi, qualche critico l’ha definita «illuminista». Si identifica in quest’aggettivo? Che senso e valore ha oggi la ragione illuminata, il pensiero razionale e critico?
Se si considera l’aggettivo come favorevole al razionale e contrario al teologico, credo che mi definisca bene. Sono nato nella Spagna nazional-cattolica e mi sono educato al collegio dei Fratelli Maristi di Granada, che mi ha vaccinato per tutta la vita contro il pensiero magico della religione e gli intrighi della Chiesa cattolica, aprendomi il cammino verso il materialismo storico che, per me, è l’evoluzione logica dell’Illuminismo una volta superati i limiti del pensiero borghese da cui era nato nella Francia di Voltaire – limiti che, necessariamente, lo frenavano. Il che non vuol dire, neanche per sogno, che il pensiero illuminista o il suo corollario – il materialismo storico – abbiano oggigiorno valore né preponderanza alcuna. Risultano socialmente marginali e sarebbe ora di riconoscerlo.
Ciò che oggi prevale nella maggior parte della nostra società è lo sfruttamento mercantile puro e semplice, travestito da democrazia rappresentativa bipartitica (PP o PSOE, PSOE o PP, in alternanza) e, finora, ripetutamente accettato mediante il voto di una maggioranza di cittadini; gli slogan pubblicitari, progettati in laboratorio nei minimi particolari e destinati a convincere questi cittadini, hanno sostituito la ragione. Per esempio, soffermiamoci sulla Spagna, paese mercantilista come pochi passato in cinquant’anni dalle espadrillas alla BMW: con ingredienti tanto esplosivi come sei milioni di disoccupati, quasi tre milioni di bambini sotto la soglia di povertà (secondo la ONG Save the Children) e centinaia di migliaia di famiglie che si sono ritrovate senza un tetto, sfrattate dalle banche, si potrebbe pensare che la sinistra marxista dovrebbe stravincere alle urne. Ebbene, no: il PP e il PSOE, due partiti che vivono felicissimi nell’economia di mercato e appoggiano attivamente il regime monarchico, continuano a essere quelli che, secondo i sondaggi, torneranno a ottenere più voti alle prossime elezioni politiche.
Pensiero illuminista? Ciò che questo significa, che ci piaccia o meno, è che la maggior parte degli spagnoli oggi ancora non si vedono come appartenenti a una classe sociale oppressa, sebbene in pratica lo siano, e non sono disposti mettere a soqquadro il mondo in cui vivono, malgrado sia diventato inospitale come quello patito dai propri nonni. Ciò non ha niente del pensiero illuminista; io piuttosto lo chiamerei pensiero perduto, visto che urta con la realtà della Spagna che si sta proletarizzando. Nel proprio intimo, gli elettori del bipartitismo che sostiene questo regime e gli serve da alibi, si sono inghiottiti l’amo del «Marchio Spagna», slogan propagandistico che il Partito Popolare ripete quotidianamente, e che occulta una realtà simile a quella che di certo annunciano i pacchetti di sigarette: cioè che, oggi come oggi, la «Spagna uccide».
La sinistra, così come la vedo, ha bisogno di applicarsi al massimo per cercare di convincere in maniera educata e rispettosa la maggioranza dei cittadini che sostengono il bipartitismo – in particolare, quelli dall’ideologia più vicina che scelgono la socialdemocrazia – del fatto che in questo modo non esiste salvezza nel mondo attuale. Semmai dovesse esserci, la Terza Repubblica si materializzerà il giorno in cui il popolo potrà esercitare la ragione illuminata, il pensiero critico, non permettendo che si continui con l’inganno.
In relazione alla domanda precedente, come definirebbe la postmodernità e come questa interessa la letteratura e l’arte in generale?
Mi attengo alla definizione che ne ha dato Umberto Eco nelle sue Postille al Nome della Rosa, e che cito a memoria: posto tutto già sia stato detto, fatto e sperimentato da coloro che ci hanno preceduto, la postmodernità consiste nel rivisitare il passato – la modernità nata dal Rinascimento –, ma facendolo con ironia, distanza, irriverenza, senza prendersi troppo sul serio. In questo momento, il miglior esempio che mi viene per illustrare questa definizione di Eco è quella delle Meninas (Le Damigelle di Corte) di Picasso che si trovano al Museo Picasso di Barcellona. Per quanto il malaghegno non fosse un postmoderno, bensì un moderno in piena regola, le sue Meninas sono una re-interpretazione eseguita, soprattutto con ironia, su quelle di Velázquez. L’inconveniente che minaccia un atteggiamento come questo è la mancanza di rigore e l’esagerazione, considerando che tutti i contributi «postmoderni» siano validi, posto che ognuno di noi abbia il diritto democratico di dire ciò che si vuole su qualsiasi cosa. Quest’eccesso venne spiegato molto bene dal filosofo britannico Christopher Norris in Teoría acrítica: posmodernismo, intelectuales y la Guerra del Golfo, che ho tradotto in spagnolo anni fa.
Naturalmente, nelle sue Postille Eco si riferiva al mondo dell’arte, ai cui componenti si attribuisce un certo percorso culturale non comune, nemmeno lontanamente, al cittadino ordinario. Questi seguono un’altra corrente, immersa nel quotidiano, che ha a che vedere con la sopravvivenza, con ciò che i cubani chiamano resolvel (il modo di sbroglarsela, NdT). Se, secondo Eco, il requisito indispensabile per rivisitare il passato è conoscerlo, difficilmente si potranno considerare postmoderni coloro che disconoscono la modernità o la conoscono unicamente come una nebulosa da cui si apprende la propria posizione, con nomi che al pronunciarli sembrano familiari, ma niente di più. In Spagna, quante persone hanno letto Quevedo, Larra, Galdós o, in Francia Rabelais e Diderot? Quanti hanno visto la cinematografia di Eisenstein o Griffith? Per quante persone Lennon e McCartney sono i dinosauri che inventarono dal nulla la musica pop, e gruppi di punk rock degli anni ottanta come i Green Day già fanno parte del pantheon delle anticaglie? Quanti riescono a localizzare la Repubblica del Mali in un mappamondo? Senza una coscienza chiara del passato, del perché il mondo è ciò che è e noi quello che siamo – informazione offerta solo dalla cultura –, la postmodernità è un concetto vuoto di contenuto. Serve al consumo di intellettuali subalterni nei circuiti accademici e per épater le bourgeois (sbalordire il borghese; NdT) con parole che suonano bene, sebbene al cittadino della postmodernità non gli importi un fischio, dato che nella pratica ha soltanto accesso a slogan prefabbricati e a prodotti culturali da usare e gettare, con obsolescenza programmata che qualcuno previamente si è fatto carico di progettare per lui o lei nell’ufficio pubblicità.
Pensa che esista qualche elemento comune tra i suoi romanzi? Cosa l’ha spinta a scriverli? Pensava fondamentalmente a un lettore destinatario o piuttosto a tradurre le sue idee in testi?
C’è un elemento che mi sembra ovvio nella mia opera narrativa ed è la sfida dei miei personaggi all’autoritarismo. Non bisogna dimenticare che ogni scrittore, che non sia né un mercenario né uno che scriva sotto dettatura, utilizza solitamente i propri fantasmi dell’infanzia come fonte di ispirazione: i miei riguardano una Spagna ipocrita, militarizzata, patriarcale, castrante, piena di preti, di repressione sessuale, cattolicesimo da quattro soldi, machismo, misoginia, omofobia… L’ho vissuta come un autentico horror e, logicamente, i miei personaggi affrontano tale horror, sia in situazioni che rivivono quell’epoca che nell’attualità. Giacché le cose in questo paese sono cambiate solo in apparenza. Oggi, il contesto è distinto, chiaro, ma non sotto sotto, poiché un paese tanto anomalo come la Spagna non cambia con intrugli cosmetici come furono la Transizione e la Costituzione che ne derivò, ed si potrà avere una correzione solamente quando la si rivolterà come un calzino. Oggi, il regime nato dalla Transizione è entrato in crisi, comportando regressi in tutte le conquiste sociali e un impoverimento massiccio della classe media. L’autoritarismo, intanto, continua così, non avendo più nulla a che vedere con il tipo di violenza – fisica e verbale – attuata da questo governo di opusdeisti [appartenenti/collusi o simpatizzanti con l’Opus Dei; NdT], di fabbricanti di armi e uomini d’affari contro chi osa protestare.
I miei libri, certamente traducono le mie idee, non la mia vita. Non scrivo su di me, bensì su ciò che vedo a partire dalla mia vita e su come tutto ciò mi colpisce. In quanto ai possibili lettori, è ovvio che tutti scrivono affinché qualcuno possa leggerli: dire il contrario, sarebbe assurdo; ed è altrettanto ovvio che questo implichi un certo grado di narcisismo, sebbene non abbia mai pensato chi possa essere il mio lettore, forse perché e prima di tutto, considero la scrittura come una specie di divano terapeutico su cui mi distendo e parlo, cercando sempre di capire, di decifrare.
Ricordo di aver letto un prologo di Juan Benet a un libro di racconti di Manuel Vicent, in cui raccontava con sarcasmo che, secondo Vicent, tutti gli scrittori sono degli esseri che durante lo sviluppo intrauterino soffrono di una lesione cerebrale che li converte nel più anormale degli umani. Mi era parsa una definizione piena di saggezza e umiltà, un antidoto alla tentazione di credersi il più bello che minaccia tutti gli altri scrittori. Se Vicent avesse ragione, io e mio fratello dovremmo farci esaminare con uno scanner, foss’anche solo per sapere in quale lobo cerebrale si sia prodotto il danno, visto che entrambi, nonostante abbiamo iniziato da strade differenti, oggi siamo del partito della tastiera: persone rare. Quanta illusione!
Quali sono stati i suoi principali referenti letterari e cos’ha appreso da ognuno?
Dopo un’infanzia in cui i miei riferimenti letterari furono soprattutto serie di romanzi d’avventura con personaggi come Tarzán, Sandokan, El Coyote o l’apache Winnetou, così come i fumetti del Capitán Trueno, El Jabato, Pantera Negra o Mendoza Colt, sono passato a leggere libri forse non più importanti, ma certamente più seri di quelli. Ricordo che a dieci anni mi impressionò molto un romanzo di Gilbert Cesbron che girava in casa mia – Los inocentes de París (Gli innocenti di Parigi). È probabile che tra le sue pagine sia iniziato dentro di me un amore per questa città, cresciuto per tutta la mia vita. Di certo, un paio di anni orsono, in un mercatino rionale in Francia, ho comperato con molta gioia un libro di lunghe conversazioni che Cesbron ha tenuto nel 1977 con Maurice Chavardès, Ce qu’on appelle vivre (Ciò che si chiama vivere), in cui ho scoperto con sorpresa che quell’autore – che tenevo su di un piedistallo immaginario – era un cattolico baciapile con un linguaggio molto simile a quello dei preti della mia infanzia. Leggerlo, mi faceva stare male: a volte, è meglio non sficcanasare nei miti infantili.
Fin dalla mia adolescenza, sono sempre stato una persona molto politicizzata – forse troppo! – e credo che i libri c’entrino qualcosa con questo, perché in Cervantes e nel romanzo picaresco, letti intorno ai quattordici anni, ho scoperto che i mali endemici che vedevo intorno a me non erano qualcosa di recente né sorti dopo la vittoria di un generale golpista, bensì il prolungamento di qualcosa di molto rancido che già esisteva nella Spagna del Cinquecento. È stato eccitante e al contempo demoralizzante; eccitante, perché ho percepito il Quijote o il Lazarillo come libri politici che denunciavano le stesse cose che avevo voglia di denunciare; e demoralizzante, perché le stesse losche figure che la penna di Quevedo aveva convertito in personaggi romanzeschi insieme al suo Buscón, continuavano a popolare il mio paesaggio quotidiano, da cui potevo dedurre che, se quattro secoli dopo l’anonimo rinascimentale tutto seguitava a essere uguale nel mio paese, la letteratura serve solamente per descrivere la realtà, non per cambiarla.
Non mancavano i picari nel mio ambiente. Per esempio, quasi di fronte casa mia, in via Álvaro Aparicio de Granada, viveva un individuo di nome José Vico Escamilla, un falangista assassino dei tempi della guerra che aeva fatto parte della Escuadra Negra (gruppi di assassini attivi durante la repressione franchista della guerra civile spagnola; si facevano chiamare anche Defensa Armada, Españoles Patriotas; NdT) e poi è invecchiato pacificamente ed è morto nel proprio letto, come un qualsiasi cittadino onorato. Ma nella strada, tutti sapevamo chi fosse; si vantava di avere sempre una pistola a portata di mano. Anni dopo, l’ho trasformato in un mio personaggio, sotto il nome di Ricardo Vico, in diversi racconti del mio libro Venganzas. E oggi, i picari continuano a essere tra di noi, sono esterni e si riproducono come cimici: prova ne è che, a causa loro, la Spagna attualmente sia un paese giudizializzato, lo zimbello d’Europa.
Il peggio è che non mi ha mai abbandonato la sensazione che non esiste qualcuno capace di mettere ordine in questo paese. Infatti, «Señorita Custodia», il racconto che chiude il mio libro Venganzas (Vendette), termina così: «Questo paese, probabilmente, non ha rimedio ». I furbastri ora sono i banchieri mafiosi che rovinano gli azionisti, politici corrotti che hanno svuotato le casse della Spagna, vescovi che amano troppo i bambini, pubblici ministeri che proteggono i ladroni, ministri con le tasche piene di denaro sporco, e un monarca che da giovane arrivò in Spagna povero mentre oggi è un miliardario grazie ai molteplici incarichi e agli affari segreti. Questi sono gli argomenti di cui voglio scrivere adesso, foss’anche solo per lasciare una testimonianza, non perché pensi che la letteratura sia un’arma efficace.
Sono stato influenzato molto dopo dal boom della letteratura latinoamericana, con i suoi eccessi retorici compresi; e questo si nota nel mio primo romanzo La parábola de Carmen la Reina (La parabola di Carmen la Regina), per la cui stesura ho impiegato molti anni, ma poco a poco ho acquisito in sobrietà e oggi preferisco le storie laconiche e piene di ellissi di Raymond Carver, anziché la logorrea di El otoño del patriarca (L’autunno del Patriarca), che a mio parere non ha resistito al passare del tempo. Ritengo che gli attuali migliori romanzieri siano yankees e scrivano in inglese: mi affascina Richard Ford.
Si è anche avvicinato al racconto erotico, insieme ad altri autori, nei “Cuentos eróticos de Navidad”(Racconti erotici di Natale) pubblicati da Tusquets, così come al mini-racconto (nel suo libro “Rueda del tiempo”). Quali differenze incontra tra questo genere e il romanzo? Quale presenta maggiori difficoltà?
Il racconto erotico è stato un incarico puramente commerciale di Beatriz de Moura. Chiese a diversi autori della casa editrice di scriverne uno per allestire un volume ad hoc e così approfittare del richiamo natalizio. La scommessa le è riuscita bene, visto che quindici anni dopo continua a essere ripubblicato. Il mio racconto – «Sola esta noche» (Sola questa notte) – gioca con l’idea dello risveglio sessuale e politico di un ragazzo nella Valenza dello sviluppo al tempo di Eduardo Zaplana, con la canzone Are You Lonesome Tonight di Elvis Presley come scusa. Mi ha divertito molto scriverlo.
Il mini-racconto è qualcosa di molto diverso; si tratta di raccontare una storia che abbia senso utilizzando il minimo di parole. Mi affascina il mini-racconto del dinosauro di Augusto Monterroso. Forges ne ha scritto uno ancora più breve che mi ha inviato per posta elettronica, senza titolo e che ho deciso di intitolare «Superación de Monterroso» (Superamento di Monterroso). Conta solo tre parole: «Érase una B»(C’era una B). Mi sembra geniale: non sono capace di poter scrivere qualcosa di tanto breve, perché ho bisogno di alcune righe per strutturare la storia. Di tutti quelli che ho prodotto, quello che più mi piace comunque è uno che ho intitolato «Final feliz» (Finale felice) e che è uscito in varie antologie. Recita così:
«Matilde Johnson venne a mancare nel suo letto d’ospedale di Montevideo il 25 marzo 1987, a 90 anni di età. Juan Robecchi, il nuovo infermiere del piano, veniva di darle il buongiorno. Il certificato medico attribuì la morte a un difetto cardiorespiratorio, che non costituisce un falso, sebbene sia un’imprecisione. Robecchi era scuro di carnagione, nero di capelli e occhi verdi – eredità di un nonno siciliano – ma in realtà Matilde Johnson lo confuse con Rodolfo Valentino, sogno intatto della sua gioventù. La causa del decesso, non indovinata da alcun medico, fu una amorosi coronaria acuta.»
Mi risulta relativamente facile scrivere un racconto breve: mi basta avere un’idea per poterla sviluppare in un colpo solo. Senz’altro, il romanzo è un altro conto, in cui inserisco il romanzo breve (che in realtà è un racconto lungo come, per esempio, «Fin de viaje» (Fine del viaggio), che chiude il mio libro Rueda del tiempo) fino a La parábola de Carmen la Reina, che conta 140.000 parole. Posso parlare solo per me, ma cercare di scrivere un romanzo è un’esperienza molto più complessa dello scrivere un racconto, quand’anche non lo sia che per la sola estensione. Esistono anche altre considerazioni che lo scrittore deve soppesare: un racconto non permette di mollare il ritmo, perché altrimenti sarebbe un tentativo fallito. Il romanzo, invece, non solo lo permette, ma fa sì che persino il lettore lo gradisca, tanto per fare una pausa nella lettura.
Creare un mondo dal niente – la scrittura di un romanzo riguarda questo e in ciò somiglia all’inizio della Genesi – non è tanto facile come sarebbe possibile supporre leggendo quel libro sacro: ora creo la luce; ora la separo dalle tenebre, poi creo gli animali, le cose, questo e quest’altro; e poi, il sabato a riposare … Non mi stupisce che con tutta quella fretta, a Geova venisse fuori un mondo tanto sinistro come questo. Ci ho impiegato dieci anni per pensare e tre per scrivere La parábola de Carmen la Reina.
Infine, un altro dei suoi libri è “Cuba en el corazón”, un’analisi critica dei DVD sulla storia della Rivoluzione cubana, pubblicata dall’ ICAIC. Cosa pensa dei cambiamenti che oggi vive l’isola, i «Lineamientos» o misure di flessibilità economica?
Appartengo a quei prolegomeni di quella che Douglas Coupland definì «Generazione X», i cui membri hanno assistito a più cambiamenti nei propri primi trent’anni di vita che tutta l’umanità durante millenni. Questo stesso concetto può essere applicato alla storia recente di Cuba, il paese con cui più mi identifico. La sua rivoluzione, giusta nel momento in cui ha trionfato, è anch’essa una «Rivoluzione X» che si è vista colpita da tutti questi cambiamenti. In un certo qual modo, la Rivoluzione cubana fa parte dei miei geni culturali: sono cresciuto con lei.
Il mondo è cambiato molto da quel 1 gennaio 1959, tanto che in poco più di cinquant’anni la Rivoluzione cubana ha dovuto far fronte a più alti e bassi che la rivoluzione francese in duecentoventiquattro o quella sovietica nei suoi sessantasette anni. L’occidente non ha mai perdonato a Cuba di essere riuscita a portare a buon fine quell’atto fondatore, ed è evidente che a questo punto nemmeno le si perdona alcuno dei cambiamenti che ha fatto ora per adattarsi a una realtà completamente differente da quando i barbuti entrarono all’Avana.
Mi chiedi dei «lineamientos», cioè, dei poco più dei trecento cambiamenti introdotti nell’articolazione statale cubana seguiti a un ampio dibattito popolare. A parte accettarli come legittimi – posto che sia il popolo di Cuba ad averli negoziati con il proprio governo – ciò che mi sembra più meritevole di elogio è il fatto che grazie a essi i programmi sociali della sanità, dell’istruzione e della cultura continuano a costituire un asse portante della rivoluzione. Ciò succede in un piccolo paese che non ha avuto tregua negli ultimi cinque decenni, esattamente nello stesso momento in cui in Europa si sta smantellando lo Stato del benessere. Non penso di cambiare opinione: per me, Cuba è ammirevole!
Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=181017
Data dell’articolo originale: 19/02/2014
URL dell’articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=11547
Una valanga di pensieri ti suscita un’intervista così. Brevemente: come mi rammarico per quanto ha ragione sugli organi di critica. Raggiungono solo chi è già sulla stessa linea di pensiero. Forse chi scrive dovrebbe fare come i traduttori, che sono cinghia di trasmissione fra l’autore e il lettore. Devono essere, senza comparire.
Invece il suo vaccino contro le magie delle religioni -per aver frequentato le scuole dei preti – mi fa sorridere tanto è banale, comune diffuso ripetuto. Una calda coperta per la pigrizia spirituale confondere i preti/imam/rabbini ecc con le antiche fonti dell’Altrove fuori del tempo-spazio. La grande illusione è farne a meno, dell’interrogativo religioso intendo, perché si mimetizza in credulità per le più assurde trovate della scienza e della politica. Abbasso Cartesio, viva Ermete Trismegisto. Sto sulla barricata con il vessillo della nobiltà dell’Irrazionale.
Grazie per l’idea e l’ottima realizzazione 🙂
Che dirti: sono d’accordo con te. Mi soffermerei un pò di più sull’anti-religione, non solo perchè sono d’accordo in pieno, quanto perchè il suo retaggio appartiene al torquemadismo politico e religioso iberico. Come dargli torto? Le ar(r)inghe di massa – come le pubblicità, d’altro canto – sono il medium dei mali peggiori di ogni tempo. E i “traduttori” ecclesiastici – o pubblicitari – colpevoli senz’altro di aver tolto ogni sogno di magia vitale o averli indotti verso un perenne medievalismo senza uscite di sicurezza. Illuminarsi di sola ragione, diventa un siero, un anti-do(t)o al (oc)cultismo imperante e gellificante. Per il resto, l’invenzione letteraria, fa da contr_appunto all’estremamente logico, al per/enne razionale: scrivere è già magico e moto spirituale. Grazie a te per averlo apprezzato:)!…sempre.