Il colpo di Stato in Egitto: islamismo, democrazia, rivoluzione |
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Santiago Alba Rico Σαντιάγκο Άλμπα Ρίκο سانتياغو البا ريكو | ||
Tradotto da Francesco Giannatiempo |
Possiamo parlare di “rivoluzione” in uno di questi due casi:
In Egitto si è avuta una rivoluzione nel 2011 stando al primo dei due significati. Finora non c’è stata nessuna rivoluzione riguardo al secondo caso. E, ora, il caso del rovesciamento di Morsi è evidente che non combacia con nessuna delle due definizioni. Non c’era nessuna dittatura da rovesciare in Egitto (se non una “democrazia borghese”) e non c’è in gioco nessun programma politico di mutamenti radicali, almeno appoggiato dalla maggioranza della piazza. Quando sono le armi di un esercito fascista a rovesciare una “democrazia borghese”, questo si chiama – tecnicamente e politicamente – “colpo di Stato”. Se milioni di persone, comprese molte di quelle rivoluzionarie secondo il primo significato del termine, chiedono un colpo di Stato, non per questo cessa di essere un colpo di Stato. Se migliaia di persone in piazza non vogliono l’intervento dell’esercito – perchè sono rivoluzionarie anche nel significato del termine – la loro volontà rimane completamente annullata dal colpo di Stato. Un esercito fascista che destituisce un presidente eletto, che sospende la costituzione e scioglie il parlamento, che arresta i dirigenti del partito di maggioranza, chiude le loro televisioni e spara sui loro sostenitori, sta mettendo in atto un colpo di Stato. Se lo appoggia molta gente, lo ottiene con facilità. Se per di più lo appoggia la sinistra e lo chiama “rivoluzione”, allora lo ottiene molto facilmente. Finalmente libero! A sinistra, la Fratellanza Musulmana; a destra il Consiglio supremo delle Forze Armate – Vignetta di Carlos Latuff Nel mondo arabo non esistevano nè esistono condizioni per cui si verifichi una rivoluzione come nel secondo caso qui descritto. Perché era importante che si verificassero rivoluzioni come nel primo dei significati? Per due motivi. Il primo, perché la fondazione di una “democrazia borghese” sotto la spinta dei popoli avrebbe permesso la formazione di un nuovo soggetto politico e la costruzione – con le nuove condizioni democratiche – di alternative collettive fino ad ora inesistenti e inimmaginabili. Il secondo, perché una “democrazia borghese” avrebbe portato alla luce la reale relazione tra le forze nella zona, favorevole agli islamisti. Ciò avrebbe rappresentato un pericolo, è vero, ma anche una necessità inevitabile, dato che tutte queste dittature avevano giustificato il proprio potere – e la repressione di tutte le espressioni politiche, compresa la sinistra – contro il “terrorismo islamico”, che loro stesse alimentavano, in un ciclo felicemente eterno per i capi, attraverso la repressione e la tirannia. La normalizzazione politica accenderebbe la speranza di una “democratizzazione dell’islamismo” attraverso l’esercizio del governo, come in parte è accaduto in Tunisia e anche in Egitto prima del rovesciamento di Morsi. La ricerca del confronto a qualsiasi costo e la strategia di assillo e di demolizione con qualunque mezzo, può solamente far abortire, per così dire, “la maturazione del fallimento” del progetto islamista; la qual cosa è inevitabile, ma che deve verificarsi in un ambito democratico, altrimenti vorrebbe dire tornare al tragico “giorno della marmotta” che da decenni sta insanguinando la zona e soggiogando la popolazione. La sinistra, per disgrazia, si è prestata a questo gioco in cui può vincere solamente l’”ancien regime”.
Un amico che anni fa lasciò Nahda profondamente disgustato, nel cercare di elaborare un progetto di “islamismo della liberazione” secondo il modello della “teologia della liberazione”, rimprovera sempre al Fronte Popolare tunisino questo distanziamento elitario della cultura popolare; ed evocando espressamente Chavez, assicura che la Tunisia sarà comunista solamente il giorno in cui, al posto di impegnarsi a svuotarle, i comunisti predichino il comunismo dalle moschee. Ciò serve a tutta l’area e, certamente, anche o soprattutto all’Egitto. Costruire un nuovo ambito egemonico delle sinistre nel mondo arabo presuppone la normalizzazione politica dell’islamismo, il suo logoramento controllato e la sua radicalizzazione – verso sinistra – dall’interno della cultura popolare. Un colpo di Stato basato unicamente sull’anti-islamismo (contando, quindi, sulle forze molto più potenti e già comprovate come nefaste della destra laica), non solo non è una rivoluzione nel secondo significato sopra richiamato, ma che faccia fallire la rivoluzione come nel primo caso, condizione di qualsiasi cambiamento profondo si voglia fare in futuro. Questo è quanto successe in Algeria nel 1992, con il risultato a tutti noto. Adesso può essere anche peggio. Tutti citiamo spesso la frase di Marx: la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Non è vero. Si ripete molte volte. La prima come tragedia, la seconda come catastrofe, la terza come inferno, la quarta come apocalisse. Non vedo cosa possa venire fuori se la sinistra vince con questa sequenza mortale… (1) Nota ___________________________________________________________ |
Analisi ineccepibile. Di simili nate in italiano non ne conosco, questo conferma l’indispensabilità di operazioni come tlaxcala.
Nel parlare dei paesi arabi dovremmo anche tener conto della diaspora. Di quella sterminata massa, di professionisti integrati e di giovani con borse di studio americane e inglesi, ormai completamente occidentalizzate e staccate dalla realtà dei paesi di orgine. Hanno avuto sia per l’Egitto che per la Libia una funzione di make-up sulla diversa realtà delle rivolte. Una gran parte di questi sono rientrati nei paesi di origine appena conclusa la rivolta, ponendosi come classe politica. Esempio: nel primo governo provvisorio libico, una dottoressa libico-irlandese diventata Ministro della salute.
Autocrate Gheddafi sostituito da oligarchie, più milizie. In Egitto tutto avviene con l’esercito, più oligarchie : Si cambia l’ordine dei fattori, ma il risultato per la massa dei semplici cittadini lavoratori e disoccupati non cambia.
Aggiungo ancora una specificità, almeno così credo, dell’esercito egiziano che è forza economica, con patrimoni e attività produttive proprie. Chi dipende per il sostentamento da un’attività economica dell’esercito che cosa griderà in piazza? A favore e contro chi? domanda retorica…
MCCara, innanzitutto ti ringrazio per la “dritta” sul refuso: senza il tuo occhio attento, il tutto perdeva senso. Detto ciò chiaramente condivido il plauso per l’analisi di S.A.Rico: un’ottica rara e aperta; un occhio che trancia di netto tutto il tentativo di make-up (come correttamente riporti) ridando fiato al fatto che le operazioni libertarie e democratiche se non sono endogene, poco hanno a che vedere con la realtà concreta. Manipol’azioni continue, mentre chi deve fare ammenda, ora si appatta. Storie viste e sviste storiche. Il dramma serio è che non si tratta di un gioco: e, nella consapevolezza dell’evento rivoluzionario, bisogna sapere che le vite che si spendono (e spezzano) per un ideale non possono essere silenziate da un tavolo di chemin de fer, come una qualsiasi locomotiva che passi sopra le teste e sbuffi sangue procedendo per un viaggio linera. Ne mancherebbe il senso circolare e continuo. Chiudi scrivendo una domanda retorica per la situazione egiziana. Se tutto questo lo rivolgessimo alla nostra situazione? In particolare, volendo dettagliare meglio su chi guadagna con le attività dell’esercito? Retoricamente parlando, s’intende…un caro saluto!